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Superare una rottura: un dolore per entrambi

Quando finisce una relazione, la narrazione più diffusa divide automaticamente i ruoli: da una parte chi viene lasciato e vive un dolore immediato, dall’altra chi prende la decisione di chiudere il rapporto e viene percepito come la persona che aveva già distaccato il proprio cuore molto prima. È un’immagine comoda, perché offre una struttura, ma non rispecchia quasi mai ciò che accade nelle esperienze reali.
Chi subisce la rottura sente il terreno muoversi sotto i piedi, fatica a comprendere cosa stia succedendo e spesso tenta di salvare ciò che resta del legame. Chi invece decide di porre fine alla relazione attraversa un percorso più silenzioso, fatto di dubbi, di tentativi ripetuti, di notti passate a chiedersi se il rapporto possa ancora essere riparato. Le emozioni sono diverse, ma il peso emotivo raramente è asimmetrico come si immagina.

Il dolore che precede la decisione: cosa vive davvero chi lascia

Molte decisioni di chiudere nascono dopo un periodo lungo e logorante in cui la persona che prenderà l’iniziativa ha cercato di tenere insieme i pezzi. Non si tratta quasi mai di un distacco improvviso. Per molti il punto di rottura coincide con l’accumulo di episodi che sembrano piccoli, ma che sommandosi tolgono progressivamente fiducia nella possibilità di proseguire.

Un gesto irrispettoso ripetuto, una menzogna scoperta tardi, la sensazione costante di non essere più visti. È come trovarsi davanti a un vaso scheggiato che si prova più volte a sistemare sapendo però che alcune crepe non si chiudono più. Chi lascia spesso lo fa quando non riesce più a tollerare quella frattura, pur desiderando che il risultato fosse diverso. Questo non allevia il dolore; semplicemente lo sposta indietro nel tempo. Chi chiude una relazione piange spesso prima che l’altro sappia cosa stia succedendo.

Nuove relazioni: distrazione o cura provvisoria?

È frequente che chi ha posto fine al rapporto sembri riprendersi in fretta, soprattutto se intraprende quasi subito una nuova relazione. Non è necessariamente un modo per dimenticare. Alcuni trovano nella novità un contenitore momentaneo in cui appoggiare le parti più vulnerabili, un luogo dove non sentirsi travolti da ruminazioni e domande rimaste sospese.

Chi invece non ha nuove distrazioni affronta il dolore in modo più diretto, simile a chi è stato lasciato: insonnia, calo dell’appetito, bisogno improvviso di rivalutare le scelte compiute. Le ricerche lo mostrano chiaramente: quando non ci sono elementi esterni che assorbono l’attenzione, il dolore di chi lascia e il dolore di chi viene lasciato quasi si sovrappongono.

Quando una rottura sembra unilaterale ma è più complessa di così

Esistono casi in cui i ruoli si confondono. Alcune persone desidererebbero chiudere ma non riescono a sostenere il senso di responsabilità che deriverebbe dalla scelta; finiscono quindi per mettere in atto comportamenti che logorano la relazione fino a spingere l’altro a fare il passo decisivo. È un meccanismo più diffuso di quanto si creda, e rende più difficile distinguere chi “ha lasciato” da chi “è stato lasciato”, perché entrambe le parti hanno contribuito a creare la distanza finale.
Quando si parla delle emozioni post-rottura, questo intreccio di ruoli spiega perché la sofferenza non proceda secondo lo schema rigido che l’immaginazione collettiva propone.

Il ruolo del bias emotivo: previsioni sbagliate sul dolore

Una componente rilevante riguarda la nostra incapacità di prevedere come ci sentiremo davvero. Le persone immaginano che chi prende una decisione ne trarrà un vantaggio emotivo, come se avere il controllo significasse provare meno dolore. Tuttavia la psicologia mostra spesso il contrario: il dolore della perdita, soprattutto quando riguarda un legame intimo, non risponde a regole lineari. Entrambi perdono qualcosa di profondamente simbolico, qualcosa che aveva modellato identità, abitudini e progetti.

La mente fatica a riconoscere questa simmetria, sia quando soffre sia quando osserva il dolore altrui. È ciò che porta a pensare “io soffro di più”, mentre l’altro, in realtà, attraversa ferite di natura diversa ma non meno intense.

Capire perché si resta aiuta a capire perché si va

Prima ancora di chiedersi perché una persona esca da una relazione, può essere utile comprendere perché ci resta. Le ricerche mostrano che le decisioni di rimanere dipendono da un equilibrio di fattori emotivi, pratici e relazionali: i benefici percepiti, la paura delle alternative, l’entità degli investimenti condivisi, i legami sociali formati nel tempo. Quando tutto questo non riesce più a compensare il peso dei conflitti e della stanchezza, anche chi non vorrebbe andare si trova costretto a farlo.
In questa luce la rottura appare come la conclusione logica di un processo complesso, non come un gesto impulsivo o coraggioso. Chi lascia e chi viene lasciato affrontano la stessa realtà da posizioni diverse: una storia finisce, e nel farlo porta con sé una parte importante della loro identità affettiva.

Ogni relazione significativa comporta un rischio. Si dona tempo, fiducia, parti vulnerabili di sé, sapendo che nulla garantisce che quel legame durerà. Per questo una rottura fa male, indipendentemente dal ruolo ricoperto. Allo stesso tempo, questa consapevolezza offre anche una prospettiva preziosa: il dolore non misura la debolezza, ma la capacità di amare.
Chi attraversa una separazione, qualunque sia la sua posizione, si trova davanti allo stesso compito emotivo: ricostruire ciò che rimane, decifrare ciò che ha imparato e riconoscere che la possibilità di un nuovo legame non nasce dall’assenza di ferite, ma dal modo in cui si sceglie di attraversarle.

About Silvia Faenza

Ciao sono Silvia Faenza, mi sono Laureata in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all'Università del Salento, nel 2014. Dal 2015 mi occupo della gestione dei contenuti per aziende e agenzie editoriali online, principalmente in qualità di ghostwriter, copywriter e web editor.

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