Le abitudini alimentari negative dei genitori possono davvero influenzare i propri figli? Le abitudini alimentari dei genitori, spesso, non si limitano a definire il cibo che si porta a tavola o i prodotti che si mettono nel carrello della spesa.
In alcuni casi, purtroppo, le abitudini alimentari negative sono anche per i genitori uno specchio del loro vissuto, delle loro emozioni, delle convinzioni che si sono radicate nel proprio essere nel corso del tempo.
Ecco perché quello che per un adulto, spesso, potrebbe sembrare semplicemente un modo di fare, ad esempio: saltare la colazione, mangiare degli snack davanti alla televisione, mangiare di più dopo una giornata stressante, potrebbe avere un impatto negativo sullo sviluppo sia fisico sia emotivo dei propri figli.
A confermarlo la psicologia e ricerche recenti che hanno valutato come le abitudini negative dei genitori possano influenzare i propri figli.
Il cibo come linguaggio familiare
Nella quotidianità di molte famiglie, il cibo è molto più che nutrimento: è premio, consolazione, punizione, ricompensa. “Se fai il bravo, ti do un dolce“, “Mangia tutto, se no la mamma si arrabbia“, “Hai preso un bel voto? Festeggiamo con la pizza“.
Queste frasi, apparentemente innocue, inseriscono fin da piccoli un’associazione emotiva tra cibo e comportamento. Il risultato? Crescere con l’idea che mangiare non sia una risposta al bisogno fisiologico, ma un modo per gestire le emozioni.
Una ricerca dell’Aston University ha evidenziato come i genitori che hanno una relazione emotiva con il cibo tendano a trasmettere gli stessi schemi ai propri figli. In particolare, coloro che mangiano per noia, stress o ansia spesso propongono ai bambini cibo come forma di comfort. Il problema è che i piccoli imparano rapidamente ad associare emozioni difficili a comportamenti alimentari disfunzionali: in futuro, saranno più inclini a cercare nel cibo una via di fuga o un anestetico emotivo.
Il modello comportamentale: osservare per replicare
La psicologia dello sviluppo ci insegna che i bambini imparano osservando. Questo è un processo di modellamento continuo: guardano, interiorizzano, imitano. Quando un genitore salta i pasti, consuma quantità eccessive di cibi ultra-processati o adotta uno stile alimentare squilibrato, trasmette – spesso senza volerlo – una normalità distorta.
Secondo uno studio pubblicato sul British Medical Journal, i figli di madri che fanno largo uso di junk food hanno un rischio significativamente più alto di sviluppare obesità infantile, anche se il resto dello stile di vita familiare è relativamente sano. Questo dimostra che non basta “dire ai bambini cosa è giusto mangiare”, se poi, a tavola, il comportamento adulto racconta un’altra storia.
Stress genitoriale e controllo alimentare
Un altro aspetto che emerge dalla letteratura è l’influenza dello stress dei genitori sul modo in cui gestiscono l’alimentazione dei figli.
Quando un adulto è sovraccarico – tra lavoro, responsabilità e tensioni personali – è più probabile che utilizzi il controllo come strategia per gestire il caos. Nel contesto alimentare, questo si traduce in regole rigide (“Devi finire tutto”, “Niente dolci per un mese”) oppure in un controllo eccessivo delle porzioni o dei cibi concessi.
Uno studio dell’Università della Georgia ha mostrato che genitori sotto stress tendono a esercitare maggiore pressione sui figli perché mangino in un certo modo, oppure a vietare in modo categorico i cibi meno salutari.
Questo tipo di approccio può innescare una relazione distorta con il cibo, alimentando sentimenti di colpa, ribellione e scarsa consapevolezza delle proprie sensazioni corporee.
Quando le emozioni non passano dal piatto
Non tutte le famiglie in difficoltà trasmettono cattive abitudini alimentari, al contrario, molte riescono a spezzare il ciclo e a offrire un esempio equilibrato, anche se non perfetto. La differenza sta spesso nel grado di consapevolezza.
Un genitore che riconosce i propri automatismi alimentari, che si interroga sulle motivazioni profonde dietro certe scelte, è più propenso a costruire un rapporto sereno con il cibo – e a trasmetterlo ai figli.
E questo non significa diventare fanatici della dieta sana o abolire ogni concessione. Vuol dire piuttosto restituire al cibo il suo significato primario: nutrire il corpo e creare connessioni. Significa anche essere in grado di parlare con i figli delle emozioni, offrendo alternative al cibo per gestire la rabbia, la tristezza, la noia.
Cosa possono fare i genitori?
La buona notizia è che è possibile cambiare rotta, anche nelle famiglie dove si sono consolidate abitudini alimentari poco sane, ci sono margini di miglioramento.
Come fare? Tra i principali consigli forniti dalle ricerche ci sono:
- Coinvolgere i figli nella preparazione dei pasti, rendendoli protagonisti di scelte consapevoli.
- Mangiare insieme, senza schermi o distrazioni, trasformando il pasto in un momento di dialogo.
- Evitare etichette come “cibo buono” o “cibo cattivo”, preferendo espressioni come “cibo che ci fa stare bene” o “da gustare ogni tanto”.
- Parlare delle emozioni apertamente, offrendo strumenti per riconoscerle e gestirle che non ruotino attorno al cibo.
Le abitudini alimentari negative spesso sono il riflesso di un’educazione emotiva incompleta, di una fatica nel comunicare e nel prendersi cura, a volte anche di un vuoto che non si riesce a nominare. Ma proprio perché si tratta di una dinamica relazionale, può essere trasformata. E trasformarla significa non solo migliorare la salute dei bambini, ma anche rafforzare il legame familiare.