L’ansia da separazione nei bambini può essere normale se si verifica quando ancora il bambino non riesce a comprendere il passare del tempo e non capisce che se una persona sta andando via o lasciando semplicemente la stanza, non vuol dire che se ne sta andando per sempre.
Il problema di ansia da separazione nei bambini si verificano quando, il bambino superata l’ansia da estraneo, attiva una risposta emotiva intensa, sproporzionata, difficile da contenere solo perché una persona (generalmente il genitore) si allontana o va via per un po’ di tempo.
L’ansia da separazione, dunque, quando non rientra nei passaggi fisiologici dell’età evolutiva, diventa una vera e propria condizione clinica: una sofferenza che si manifesta con modalità specifiche e che merita attenzione professionale.
Quando l’ansia da separazione nel bambino diventa un problema
Nel primo anno di vita, il legame di attaccamento con i genitori – o con chi si prende cura del bambino – rappresenta la base per la sicurezza interiore. Intorno agli 8-10 mesi, è normale osservare la cosiddetta “ansia dell’estraneo”: una forma di reazione protettiva che fa parte dello sviluppo neuroaffettivo.
Ma quando, superata questa fase, un bambino continua a mostrare una paura intensa all’idea di separarsi, anche per brevi periodi, e tale timore interferisce con la sua quotidianità – scuola, sonno, relazioni – allora è opportuno interrogarsi più a fondo.
L’ansia da separazione si manifesta in genere in età prescolare o scolare, ma non è raro che permanga o riemerga anche negli anni successivi, sotto forme diverse, più sottili ma non meno incisive.
I segnali sono chiari: il rifiuto di andare a scuola, difficoltà a dormire da solo, incubi ricorrenti su scenari di abbandono, sintomi somatici (mal di pancia, mal di testa) che compaiono puntualmente in prossimità del distacco. In alcuni casi, il bambino verbalizza la sua angoscia temendo che possa succedere qualcosa di grave al genitore in sua assenza: un incidente, una malattia improvvisa, la morte.
La relazione come chiave di lettura
La psicologia dell’età evolutiva definisce come il sintomo non sia mai completamente isolato. Infatti, dietro a un comportamento apparentemente “esagerato” si nasconde quasi sempre un significato relazionale.
Il bambino non è solo un soggetto con delle emozioni, è un essere in relazione, immerso in una trama affettiva che ne condiziona il funzionamento emotivo. Per questo, l’ansia da separazione non può essere ridotta a una fobia o a un disturbo dell’umore. Va inquadrata nella qualità del legame con le figure di riferimento e nella storia familiare, anche quando quest’ultima non presenta criticità evidenti.
In alcuni casi, l’ansia del bambino riflette – come in uno specchio – le ansie non risolte dell’adulto. Una madre o un padre che fatica a lasciar andare, che vive il distacco come una colpa o una minaccia può inconsapevolmente trasmettere messaggi ambigui: “Vai pure a scuola”, ma con lo sguardo preoccupato; “Divertiti con i tuoi amici”, ma con il tono esitante. Il bambino, molto sensibile ai segnali non verbali, percepisce questa incoerenza e risponde amplificando la sua paura.
Differenziare tra normale attaccamento e disagio clinico
La sfida, per un professionista, è distinguere tra una manifestazione fisiologica e un quadro clinico che richiede intervento. I criteri diagnostici, come quelli riportati nel DSM-5, offrono indicazioni utili ma non esaustive. È necessario andare oltre il numero di sintomi o la loro durata, per considerare il contesto, la qualità della sofferenza, il livello di compromissione nelle attività quotidiane.
Un bambino che piange per i primi giorni di scuola non è necessariamente un bambino con disturbo d’ansia da separazione. Ma se quel pianto si trasforma in panico, se il rientro a scuola richiede una trattativa estenuante ogni mattina, se l’ansia si protrae per mesi, allora è necessario un approfondimento.
Il ruolo della scuola, dei pediatri, della rete di adulti
Spesso il primo campanello d’allarme suona in classe, gli insegnanti possono infatti notare il disagio, l’evitamento, le regressioni. In alcuni casi, è il pediatra che riceve segnalazioni ricorrenti di sintomi fisici senza una causa organica apparente e quindi potrebbe rendersi conto di questo disagio.
Naturalmente, coloro che devono per prima fare caso a questi comportamenti sono i genitori, insieme poi a tutti gli attori della rete educativa che possono riconoscere i segnali cercando di interagire con la famiglia per superare il problema senza colpevolizzazioni.
L’approccio deve essere sistemico, empatico, mai semplificato. È controproducente ridurre il problema a una “mancanza di autonomia” o peggio ancora a un “capriccio”. Anche quando il comportamento del bambino è esasperato – urla, si nasconde, si aggrappa – quel comportamento è un tentativo disperato di regolare un’angoscia che non sa nominare. Il compito degli adulti è tradurre, contenere, aiutare a dare senso.
Percorsi di cura e accompagnamento
Quando l’ansia da separazione diventa cronica o si associa ad altre difficoltà (disturbi del sonno, isolamento sociale, oppositività), è indicato un percorso psicologico. Il lavoro con il bambino può includere tecniche di rilassamento, narrazione emotiva, giochi simbolici, ma il fulcro è spesso l’alleanza con la famiglia. Non si tratta di cercare “errori educativi”, ma di costruire insieme nuove modalità relazionali, più sicure e meno ambivalenti.
L’obiettivo non è eliminare la paura, ma trasformarla: aiutare il bambino a sviluppare fiducia nelle proprie risorse e nella stabilità dei legami, anche quando questi sono temporaneamente messi alla prova dalla distanza.