Quando durante una giornata non fai altro che pensare: non sento nulla, non riesco a capire cosa sto provando, avverto come un’assenza di emozioni, potresti vivere un momento difficile in cui senti che le tue emozioni si sono raffreddate oppure soffrire di alessitimia.
L’alessitimia però non vuol dire esattamente che non si prova alcuna emozione, ma riguarda per lo più la difficoltà a capire le emozioni, riconoscerle, esprimerle o collegare una specifica emozione al momento che si sta vivendo.
Si tratta di una condizione che può restare invisibile per molto tempo, spesso confusa con freddezza caratteriale, introversione o semplice riservatezza. In realtà, dietro l’incapacità di leggere il proprio mondo emotivo si nasconde una complessità che merita attenzione clinica e rispetto.
Cosa vuol dire alessitimia?
Il termine “alessitimia” viene dal greco e significa, letteralmente, “assenza di parole per le emozioni”.
A livello clinico l’assenza di emozioni o alessitimia in realtà descrive un insieme di difficoltà: riconoscere i propri stati affettivi, verbalizzarli, differenziare le emozioni tra loro, e collegarle a situazioni concrete.
Le persone alessitimiche non sono prive di affettività, ma non riescono a comprenderla e a condividerla, tanto con sé stesse quanto con le altre persone con la quale condividono la propria vita o il proprio lavoro.
Questa condizione si osserva con maggiore frequenza in presenza di altri disturbi psichici o neurologici.
Infatti, spesso si potrebbe andare a riscontrare questa patologia in persone che soffrono di problematiche come: depressione maggiore, disturbo post-traumatico da stress, disturbi dello spettro autistico, schizofrenia, o in persone con danni cerebrali localizzati, in particolare all’insula, una regione del cervello coinvolta nella consapevolezza emotiva.
Assenza di emozioni: come si capisce di soffrirne?
I segnali sono spesso sottili, ma persistenti, chi ne è affetto tende a descrivere le emozioni in modo vago o generico, ricorre più facilmente a termini fisici che psicologici, o evita del tutto di parlarne.
Di fronte a eventi emotivamente significativi può sembrare impassibile, inappropriato o fuori contesto. Questo atteggiamento, che dall’esterno può sembrare una mancanza di empatia, in realtà va ad identificare un vero e proprio deficit di elaborazione emotiva.
Alcuni riportano di percepire una sorta di “vuoto”, altri si sentono confusi, o non riescono a distinguere se quello che provano sia tristezza, rabbia o semplicemente stanchezza.
Nei contesti relazionali, questo può generare incomprensioni, isolamento, fatica nel costruire legami significativi.
Le possibili origini
Le cause dell’alessitimia possono essere diverse, in alcuni casi ad esempio, è presente una componente neurologica: lesioni cerebrali, malattie neurodegenerative o traumi cranici possono compromettere le aree coinvolte nell’elaborazione affettiva, altre volte l’origine è legata alla storia di vita.
Molti studi hanno evidenziato un legame tra esperienze traumatiche precoci – come trascuratezza emotiva, abusi o ambienti familiari rigidamente repressivi – e lo sviluppo di alessitimia.
L’infanzia è una fase molto importante per l’apprendimento delle emozioni: se viene meno la possibilità di nominarle, riconoscerle o vederle modellate da figure di riferimento, diventa difficile sviluppare una piena alfabetizzazione emotiva.
L’alessitimia è osservabile anche in soggetti con disturbi dello spettro autistico, ma non è un tratto distintivo dell’autismo. La ricerca suggerisce che, in molti casi, è proprio l’alessitimia – non la condizione autistica in sé – a spiegare la ridotta empatia in alcune persone.
Trattamenti possibili
Non esiste un protocollo terapeutico univoco, in quanto l’intervento va calibrato sulla persona, tenendo conto delle eventuali comorbidità. Se la difficoltà emotiva si inserisce in un quadro depressivo, il trattamento farmacologico può aiutare a ridurre l’anedonia e favorire un maggiore accesso al sentire.
Sul piano psicoterapeutico, si lavora per potenziare le capacità di mentalizzazione, consapevolezza corporea e riconoscimento affettivo. Tecniche come la mindfulness, il biofeedback o il diario emotivo possono aiutare la persona a registrare e distinguere le proprie reazioni fisiologiche, favorendo un primo livello di contatto con ciò che sente.
Strategie quotidiane e buone pratiche
Prendere nota dei cambiamenti corporei, utilizzare dispositivi come il cardiofrequenzimetro o semplicemente fermarsi a osservare cosa accade nel corpo in certi momenti, può essere un punto di partenza.
Anche il linguaggio – parlato o scritto – può fare la differenza, scrivere cosa si è vissuto in una giornata, tentare di collegare eventi e sensazioni, senza la pretesa di capire tutto subito, è un esercizio che, nel tempo, costruisce consapevolezza.
Un aspetto centrale è l’atteggiamento verso sé stessi, le emozioni – comprese quelle “negative” -non sono ostacoli da rimuovere, ma segnali da imparare a leggere. Riconoscerle, anche quando sembrano minacciose o scomode, è un passo verso un senso più pieno di presenza nella propria vita.
Quando rivolgersi a un professionista
Sentire un’assenza di emozioni, oppure avvertire un senso di vuoto che non si riesce a spiegare, non è qualcosa da ignorare. Se questa sensazione persiste, compromette le relazioni o crea disagio, è opportuno parlarne con uno psicologo o uno psichiatra. Il percorso di esplorazione emotiva può essere lungo, ma è anche l’occasione per recuperare una parte essenziale del proprio essere.
Non c’è nulla di patologico nell’avere una struttura emotiva meno espressiva o interiorizzata. Ma quando l’assenza di contatto con le emozioni genera sofferenza, quella sofferenza merita ascolto e cura.