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Come il dolore si manifesta a causa di ansia, pensieri e rimuginio

Quando il corpo soffre, spesso la sofferenza non nasce dove crediamo, il confine tra ciò che è fisico e ciò che è emotivo è molto più sottile di quanto immaginiamo. La persona arriva nello studio con un sintomo preciso, una zona che brucia o tira, un malessere che ritorna, eppure il racconto che segue spesso si allontana rapidamente dall’area del corpo interessata per entrare nel territorio dei pensieri, delle preoccupazioni che girano senza tregua, della stanchezza emotiva che da mesi si stratifica e altera il modo in cui il cervello interpreta i suoi segnali.

Da anni la neuropsicologia descrive questa interdipendenza tra stati emotivi e dolore, ma a renderla evidente non sono tanto le formule teoriche quanto l’esperienza degli stessi pazienti, che scoprono quanto il dolore cambi volto nelle giornate in cui l’umore si abbassa, l’ansia incalza, il sonno si spezza o il rimuginio prende il sopravvento. Il dolore percepito non coincide mai solo con lo stimolo di partenza: passa attraverso filtri cognitivi, associazioni e memorie, canali neurali che si attivano o si sovraccaricano in base allo stato emotivo del momento.

La mente che amplifica il segnale

Quando l’umore si abbassa, il modo in cui il cervello elabora le informazioni sensoriali cambia in modo profondo. Non si tratta di “suggestione” né di debolezza emotiva, ma di un funzionamento preciso: un umore depresso o un’ansia persistente alterano il dialogo tra le aree del cervello che registrano il dolore e quelle che dovrebbero modulare o calmare la risposta. Con la risonanza magnetica funzionale è stato possibile osservare come, nelle persone che attraversano fasi di tristezza o di forte stress, le aree deputate alla percezione del dolore risultino più attive, mentre le regioni che dovrebbero attenuarlo lavorano con minore efficacia. È come se la soglia interna si abbassasse e ogni segnale diventasse più intenso.

In questi momenti, i pensieri non sono semplici accompagnatori del dolore: diventano amplificatori. La mente, soprattutto quando è abituata a muoversi su binari di rimuginio, costruisce scenari catastrofici, formula previsioni rigide, immagina il peggio. Il corpo avverte queste distorsioni cognitive e risponde con un aumento della tensione muscolare, della vigilanza interna, dell’attenzione iperfocalizzata sul sintomo, e tutto questo crea un circolo che alimenta il dolore stesso.

Quando il pensiero peggiora l’esperienza corporea

Nel lavoro psicologico è evidente come certi schemi di pensiero non si limitino a colorare l’umore, ma plasmino l’esperienza corporea. Le persone che vivono con il dolore cronico lo raccontano bene: in giornate più leggere il dolore sembra sopportabile, mentre in quelle dominate da pensieri cupi la stessa sensazione assume dimensioni molto più grandi. Le ruminazioni, soprattutto quelle che girano attorno a temi di impotenza, colpa o previsione negativa del futuro, creano una sorta di sovraccarico emotivo che interferisce con la capacità del cervello di modulare lo stimolo doloroso. L’attenzione selettiva si restringe sul fastidio, il corpo si irrigidisce e il sintomo si fa più presente. Non è un processo volontario, né qualcosa che si possa controllare con la forza di volontà: è un automatismo appreso, radicato nella storia personale, spesso collegato a periodi di stress prolungato o traumi non del tutto elaborati.

Come intervenire sui meccanismi che alimentano il dolore

Il trattamento psicologico del dolore non si concentra sul “pensare positivo”, che sarebbe una forma semplificata e poco efficace di intervento, ma sull’educare la mente a riconoscere i propri automatismi, smontare le distorsioni cognitive e ristabilire un rapporto più equilibrato con le sensazioni corporee.

La terapia cognitivo-comportamentale e la mindfulness lavorano proprio su questo: portare in superficie le catene di pensieri che precedono l’aumento del sintomo, educare la mente a osservare quel flusso senza lasciarsene trascinare e creare uno spazio interno in cui il dolore non occupi l’intera scena. Con il tempo, la persona impara a distinguere la sensazione fisica dal giudizio su quella sensazione, e questo, in termini neurologici, riduce l’attività delle reti che amplificano il dolore.

Il lavoro psicologico non elimina necessariamente lo stimolo di base, ma gli restituisce proporzioni reali. Molti pazienti riferiscono di percepire un dolore più “gestibile”, meno invasivo, quasi come se dentro di loro avessero recuperato quel margine interno che prima sembrava sparito. Questo accade perché, modificando gli schemi di pensiero e riducendo la ruminazione, il cervello riprende a svolgere il suo ruolo regolatorio e attenua il segnale.

Riconoscere il proprio modo di soffrire

Comprendere la natura psicologica del dolore non significa sminuire la dimensione fisica, ma inserirla in un contesto più ampio, che rispecchia la complessità dell’esperienza umana. Chi vive un dolore persistente ha bisogno di riconoscere la parte emotiva che lo accompagna, di comprendere come le preoccupazioni e l’umore intervengano sul sintomo e di imparare strategie che riducano l’impatto delle ruminazioni.

Quando una persona inizia a osservare questi intrecci tra vissuto emotivo e corpo, si apre uno spazio di maggiore consapevolezza che permette di non subire il dolore in modo passivo, ma di partecipare attivamente al suo trattamento. Un approccio psicologico maturo riconosce che il dolore non è mai un segnale isolato: è un linguaggio complesso, fatto di stimoli sensoriali, memorie, paure, abitudini di pensiero e modalità con cui la mente interpreta ciò che accade.

About Silvia Faenza

Ciao sono Silvia Faenza, mi sono Laureata in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all'Università del Salento, nel 2014. Dal 2015 mi occupo della gestione dei contenuti per aziende e agenzie editoriali online, principalmente in qualità di ghostwriter, copywriter e web editor.

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