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Le punizioni ai bambini non educano, danneggiano.

Le punizioni ai bambini non educano, e sono sempre di più gli esperti che sottolineano questa cosa, nonostante per anni sia stato considerato un mezzo più che legittimo per riuscire a farsi ascoltare e per educare i propri figli.

Un’eredità culturale derivante da credenze che ormai la psicologia ha da anni rifiutato, hanno portato molti genitori a pensare: “una sculacciata non ha mai fatto male a nessuno”, “quando serve, ci vuole una bella lezione”, “io sono cresciuto così e non mi è successo niente”.

La psicologia contemporanea, supportata da decenni di osservazione clinica ed evidenze empiriche, ci offre un quadro molto diverso. Non solo la punizione non educa, ma può compromettere lo sviluppo emotivo e relazionale del bambino, lasciando strascichi invisibili che si protraggono ben oltre l’infanzia.

Le punizioni ai bambini? Un gesto che serve all’adulto

Punire è spesso una reazione impulsiva e viscerale da parte dell’adulto, più che un vero atto educativo. Quando un genitore o un insegnante punisce, nella maggior parte dei casi sta rispondendo a un’emozione personale: frustrazione, rabbia, senso di impotenza.

Si tratta di uno sfogo che, anche se da un momentaneo sollievo a chi esercita l’autorità, non produce alcun apprendimento reale per il bambino.

Anzi: “la punizione diventa un ostacolo alla crescita: blocca un comportamento senza fornire gli strumenti per comprenderne il significato o la sua inadeguatezza”.

Il bambino può smettere di agire in un certo modo, sì, ma lo fa solo per paura e non per comprensione e la paura non è mai un buon insegnante. Non spiega, non guida, non accompagna, ma in genere genera silenzio, passività, talvolta rabbia repressa.

Il bambino punito apprende che ciò che conta è non farsi scoprire, non l’etica intrinseca del comportamento. Non distingue tra giusto e sbagliato, ma solo tra “quello che mi fa evitare il rimprovero” e “quello che mi espone alla punizione”.

Educare significa offrire senso, non infliggere sanzioni

Per comprendere davvero l’effetto disfunzionale della punizione, è necessario ripensare l’educazione come un processo di scoperta e non di repressione.

Educare in modo buono, che sia un genitore, un insegnante o una figura di riferimento a farlo, non deve puntare al controllo, ma alla crescita. La crescita non si fonda sulla paura, bensì sul dialogo, sulla possibilità di sperimentare, sbagliare, comprendere e migliorare.

Immaginiamo un bambino che prende un brutto voto a scuola. L’istinto immediato può essere quello di punirlo, togliendogli il cellulare o vietandogli di uscire. Ma a cosa serve? Forse a farlo sentire ancora più inadeguato, a rafforzare il senso di fallimento e a renderlo più insicuro nel tentare di nuovo. Un gesto punitivo si somma al voto negativo, amplificandone l’effetto emotivo.

Se invece, un brutto voto o un gesto non conferme, viene accolto con la giusta empatia dal genitore e soprattutto creando uno spazio di riflessione con il bambino, al fine di fargli comprendere qual è l’errore che ha fatto, si otterrà una risposta più positiva anche sul lungo periodo.

Il bambino non è un piccolo adulto

Spesso dimentichiamo che il bambino non è una versione in miniatura di noi stessi. Il suo cervello è in formazione, i circuiti emotivi non sono ancora maturi e la sua capacità di autoregolazione si sviluppa progressivamente. Punirlo per non aver rispettato una regola che nemmeno è in grado di comprendere appieno è un atto ingiusto e inefficace.

Maria Montessori, nel suo saggio La mente assorbente, descrive chiaramente le fasi dell’evoluzione dell’obbedienza. Fino ai due anni e mezzo, il bambino agisce spinto da forze interiori che lo guidano verso l’auto-costruzione.

Dai due anni e mezzo ai cinque, comincia a emergere il desiderio di conformarsi, ma non sempre è in grado di farlo. Solo dopo i cinque anni il piccolo diventa capace di rispondere adeguatamente alle richieste, ma anche allora non sempre lo farà.

Non perché è cattivo o ribelle, ma perché sta ancora esplorando, provando, testando i propri confini e quelli del mondo che lo circonda.

Punirlo in queste fasi equivale a costruire muri là dove servirebbero sentieri. Blocca la scoperta, genera confusione e spesso accresce comportamenti di sfida, insicurezza o evitamento.

La paura crea adulti fragili, non forti

Uno dei grandi fraintendimenti dell’educazione punitiva è l’idea che serva a “preparare alla vita”, come se la sofferenza precoce fosse una sorta di vaccino contro le difficoltà dell’esistenza. Ma questo approccio non rende i bambini più forti.

Al contrario, li espone al rischio di interiorizzare modelli relazionali distorti, basati sul potere, sulla coercizione e sull’idea che l’errore meriti una punizione e non una soluzione.

Quando un bambino cresce in un clima autoritario, può diventare un adulto ansioso, iper-performante, incapace di tollerare il fallimento. Oppure può perpetuare il modello subito, diventando lui stesso autoritario, a casa o al lavoro.

Il ciclo vittima-carnefice, ampiamente studiato in psicologia relazionale, si alimenta proprio attraverso questa trasmissione generazionale di comportamenti appresi. Una sculacciata, una punizione umiliante o una sanzione ingiusta non si cancellano nel tempo. Lasciamo tracce. E quelle tracce, nel tempo, modellano il nostro modo di stare nel mondo.

Esistono alternative? Sì, e passano dalla relazione

Il vero antidoto alla punizione è il dialogo, non la predica, non il sermone, ma una comunicazione autentica, affiancata, in cui l’adulto non si pone come giudice, ma come guida. È possibile far comprendere al bambino che un comportamento è inadeguato senza umiliarlo. È possibile insegnare le conseguenze delle azioni senza infliggere dolore. È possibile crescere un figlio con fermezza, ma senza punizioni. Ma tutto ciò richiede consapevolezza, pazienza e un’educazione emotiva profonda anche per gli adulti.

Significa imparare a regolare la propria rabbia, a riconoscere i propri automatismi e a non riprodurre schemi solo perché “si è sempre fatto così”. Significa anche sapersi scusare quando si sbaglia, perché anche i genitori sbagliano. E chiedere scusa, per un bambino, è una lezione di vita ben più potente di qualsiasi castigo.

About Silvia Faenza

Ciao sono Silvia Faenza, mi sono Laureata in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all'Università del Salento, nel 2014. Dal 2015 mi occupo della gestione dei contenuti per aziende e agenzie editoriali online, principalmente in qualità di ghostwriter, copywriter e web editor.

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