A lungo si è pensato che l’intelligenza sia qualcosa che si misura con un test. Un numero che — almeno in teoria — dice quanto una persona sia in grado di ragionare, risolvere problemi, apprendere. Ma chi lavora con le persone lo sa bene: non è tutto lì. Non basta saper risolvere un’equazione o scrivere un buon tema per definire davvero quanto una persona sia intelligente.
Era il 1983 quando Gardner, psicologo dello sviluppo, pubblicò una teoria destinata di cui ancora si parla sulle intelligenze multiple. Questa teoria ha illustrato come l’intelligenza non fosse unica, ma composta da molteplici sfaccettature.
L’intelligenza per Gardner è un insieme di competenze e sensibilità, spesso molto diverse tra loro, che coesistono e si esprimono in modi differenti. Alcune si vedono subito, altre restano più nascoste. Ma tutte, potenzialmente, contribuiscono a definire chi siamo.
Oltre il QI: la teoria delle intelligenze multiple di Gardner
Secondo Gardner, non esiste un solo tipo di intelligenza, o, meglio, non avrebbe senso parlare di “intelligenza” come di qualcosa di unitario. Le sue ricerche portarono a identificare otto (poi forse nove) forme di intelligenza, ciascuna con un proprio linguaggio, una propria struttura e un proprio modo di emergere nel mondo reale.
Alcune di queste sono familiari a chiunque abbia frequentato la scuola: l’intelligenza logico-matematica e quella linguistica, ad esempio.
Ma ce ne sono altre meno riconosciute, se non addirittura trascurate, come la capacità di orientarsi nello spazio, o quella di comprendere le emozioni degli altri. La sensibilità per la musica. Il rapporto intuitivo con la natura. La consapevolezza interiore. O la tendenza a riflettere sui grandi temi dell’esistenza.
L’elenco delle intelligenze che Gardner propone è questo:
- visuo-spaziale
- linguistico-verbale
- logico-matematica
- corporeo-cinestetica
- musicale
- interpersonale
- intrapersonale
- naturalistica
- e, in via ipotetica, anche esistenziale
L’idea di Gardner è che ognuno di noi dispone di un profilo unico, una combinazione personale di queste capacità. Alcune sono dominanti, altre meno sviluppate. Ma nessuna ha più valore dell’altra.
Critiche e apprezzamenti alla teoria
Quando si crea una nuova teoria così distante da quello che dice la scienza è normale che ci sia una comunità scientifica e non solo che la valuta, la critica o l’apprezza. Nel caso della teoria delle intelligenze multiple di Gardner questa ha creato una divisione, tra pedagogisti che ne hanno fatto riferimento come base per impostare una didattica che fosse più flessibile e critiche provenienti principalmente dalla comunità scientifica.
Infatti, tra le obiezioni principali c’è stata l’assenza di evidenze empiriche che possano dimostrare l’esistenza di intelligenze multiple. Questo perché non esiste un test in grado di misurare l’intelligenza, né studi in grado di dimostrare in modo inequivocabile che esse siano realmente delle strutture di tipo cognitivo che agiscono in modo autonomo.
Alcuni ricercatori hanno suggerito che si possa trattare più di attitudini o di stili cognitivi, piuttosto che di vere e proprie “intelligenze”.
Un’altra critica frequente riguarda il rischio di scambiare la teoria per un sistema rigido di classificazione. Gardner stesso ha sottolineato che le sue intelligenze non vanno confuse con gli “stili di apprendimento”, e che cercare di adattare la didattica a una presunta intelligenza dominante non produce, di per sé, risultati migliori. Nonostante ciò, sono molti a interpretare ancora oggi questa teoria sotto il profilo educativo e dell’apprendimento.
Una teoria utile come lente per conoscere sé stessi e gli altri
Nonostante le critiche, l’approccio di Gardner può offrire spunti preziosi. Non tanto come verità assoluta, quanto come lente alternativa per guardare a sé stessi e agli altri. Ci ricorda, innanzitutto, che le capacità umane non si esauriscono nella logica e nel linguaggio. E che ci sono molti modi di essere intelligenti, anche se alcuni faticano a essere riconosciuti.
È un messaggio potente, soprattutto per chi si è sempre sentito “fuori posto” a scuola, o per chi ha talenti che sfuggono alle valutazioni tradizionali. Pensiamo a un ragazzo che impara meglio muovendosi, costruendo, agendo con le mani. A una bambina che ha un’intuizione formidabile per comprendere le emozioni altrui, ma si distrae durante le lezioni frontali. Sono casi molto più comuni di quanto si pensi.
Riconoscere questa varietà significa anche costruire percorsi formativi e professionali più adatti alle caratteristiche di ciascuno. Senza cadere nell’illusione di incasellare le persone in categorie fisse. Senza pretendere che ognuno debba eccellere in tutto. Ma accettando che ognuno eccelle in qualcosa — e che quel qualcosa può avere un valore.