Ci piace pensare di avere un terreno stabile sotto i piedi, avere una direzione chiara, una traiettoria riconoscibile, una sequenza logica di eventi che ci consenta di anticipare ciò che verrà. Quando questa struttura si incrina, quando il futuro diventa opaco o contraddittorio, qualcosa dentro di noi si irrigidisce. L’incertezza non è soltanto una condizione esterna: è un’esperienza interna che mette alla prova il modo in cui pensiamo, sentiamo e ci raccontiamo la realtà.
Il cervello umano non ama le zone grigie, in quanto è progettato per ridurre la complessità, per creare mappe rapide e funzionali che permettano di prendere decisioni senza consumare troppe risorse cognitive. Le scorciatoie mentali, le cosiddette euristiche, servono proprio a questo: semplificare. Funzionano bene in contesti noti, diventano fragili quando il contesto cambia o si fa ambiguo ed è in quei momenti che la richiesta implicita che la mente riceve è quasi insostenibile: restare aperta senza una risposta immediata.
Cosa fare quando non sappiamo cosa accadrà?
Quando non sappiamo cosa accadrà, il pensiero tende a scivolare verso il peggio, è una predisposizione antica, legata alla sopravvivenza, davanti all’ignoto, anticipare il pericolo è stato per millenni un vantaggio evolutivo, oggi, però, quella stessa predisposizione può trasformarsi in una lente deformante.
La mente inizia a produrre scenari catastrofici che, pur non essendo realistici, risultano emotivamente convincenti. È il terreno fertile della ruminazione, con domande che tornano sempre uguali, come un ritornello difficile da ignorare: incontrerò mai qualcuno, resterò sola, riuscirò a costruire una famiglia, avrò le risorse economiche per farlo, troverò lavoro, mi chiameranno dopo il colloquio, riuscirò a trovare la giusta stabilità?
Cercava risposte definitive, ma la vita non gliele offriva, ma l’unica cosa possibile, in quei momenti, era ascoltare. L’ascolto non risolve l’incertezza, ma la rende sopportabile e spesso è questo che le persone cercano: qualcuno che resti con loro dentro il dubbio, senza forzare una soluzione.
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Come convivere con l’incertezza e l’indefinito?
La difficoltà di convivere con ciò che non è definito si è resa ancora più evidente negli ultimi anni: eventi globali, crisi sanitarie, instabilità economica, guerre, catastrofi naturali, cambiamenti improvvisi nei ruoli familiari e lavorativi. Un lavoro perso senza preavviso, una casa distrutta da un terremoto, una diagnosi medica che sconvolge l’equilibrio quotidiano, una relazione che finisce lasciando dietro di sé silenzio e domande. Anche i passaggi apparentemente positivi, come un figlio che va all’università, possono aprire una fase di smarrimento. L’incertezza non distingue tra eventi desiderabili e traumatici: agisce ogni volta che il futuro smette di essere prevedibile.
Di fronte a questa instabilità, alcune persone cercano rifugio in sistemi che promettono certezze assolute, ed è così che alcuni cedono a gruppi come quelli caratterizzati da una religiosità estrema, teorie del complotto, interpretazioni rigide della realtà, pratiche divinatorie, tutte vissute come unica bussola possibile, ma questi spesso sono tentativi di ridurre l’angoscia, di ricostruire un ordine, ma nessuno di questi sistemi elimina davvero l’ambiguità. Al massimo la sposta, la nasconde temporaneamente sotto una narrazione rassicurante.
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Intolleranza all’incertezza e pensiero catastrofico
La ricerca psicologica ha osservato con attenzione questo meccanismo, studi pubblicati su riviste come Clinical Psychological Science hanno mostrato quanto l’intolleranza dell’incertezza sia strettamente legata alla ruminazione e al pensiero catastrofico. Le persone che rimuginano in modo intenso tendono a concentrarsi ossessivamente sulle proprie preoccupazioni, creando un circuito chiuso in cui ogni pensiero conferma il successivo. Il futuro viene percepito come una minaccia costante e la capacità di reagire si riduce. Non perché manchino le risorse, ma perché la mente è occupata a difendersi da scenari che esistono solo sul piano immaginativo.
Un altro aspetto rilevante riguarda il bisogno di chiusura, alcuni individui sentono un’urgenza quasi fisica di arrivare a una conclusione, a una risposta netta, anche quando i dati sono incompleti. Ricerche pubblicate su Personality and Individual Differences hanno evidenziato come un elevato bisogno di chiusura sia associato a una minore flessibilità cognitiva. Chi fatica a tollerare l’ignoto tende a essere meno incline al pensiero divergente, quello che permette di esplorare soluzioni alternative e di muoversi con creatività tra le possibilità.
Il pensiero divergente richiede una disponibilità particolare: accettare di non sapere subito, di restare in sospeso, di considerare opzioni che non garantiscono risultati immediati. È la stessa disponibilità che serve per crescere, imparare, cambiare prospettiva, quando manca, ogni ambiguità viene vissuta come una minaccia all’identità personale, quando è presente, l’incertezza diventa uno spazio di esplorazione.
Come tollerare l’incertezza con le giuste pratiche
Esistono pratiche quotidiane che possono aiutarci a sviluppare questa tolleranza: ascoltare o leggere una storia ben costruita ci costringe, in modo gentile, a restare dentro l’ambiguità. I personaggi non sono mai completamente coerenti, le loro motivazioni non sono sempre chiare, gli esiti non sono immediati, eppure restiamo coinvolti. La narrativa ci allena a sospendere il giudizio, a entrare nei panni altrui, a riconoscere che la complessità fa parte dell’esperienza umana.
Anche la scrittura svolge una funzione simile, con un impatto ancora più diretto, alcune ricerche hanno mostrato come la scrittura espressiva produca benefici concreti sulla salute fisica e mentale, mettere su carta pensieri ed emozioni, senza filtri estetici o correttivi, aiuta a dare una forma all’esperienza interna, non la semplifica, ma la rende più contenibile. Scrivere non significa trovare subito un senso, significa permettere alla mente di organizzare ciò che è confuso, di osservare da una certa distanza ciò che, se tenuto solo dentro, rischia di diventare opprimente.
Studi hanno evidenziato come l’esposizione scritta, svolta in modo guidato, sia efficace anche nel trattamento del disturbo da stress post-traumatico, raccontare ripetutamente un evento doloroso insegna al sistema nervoso che il ricordo, pur difficile, non è pericoloso, col tempo, l’intensità emotiva diminuisce.
Una routine di scrittura non deve essere sofisticata, può assumere molte forme: un diario quotidiano, appunti sparsi, elenchi, sogni annotati al risveglio, persino disegni o scarabocchi, quindici o venti minuti al giorno sono sufficienti. Non serve correggere, rileggere, giudicare. Il beneficio sta nell’atto stesso di scrivere, nel concedersi uno spazio in cui l’incertezza può essere espressa senza dover essere risolta.
Gestire l’incertezza non significa eliminarla, significa costruire una base interna abbastanza solida da poterla attraversare senza perdere l’equilibrio. È un lavoro sottile, fatto di ascolto, di curiosità, di pratiche che allenano la mente a restare aperta anche quando le risposte non arrivano subito. La vita, dopotutto, raramente offre certezze definitive. Offre possibilità. E imparare a stare dentro questa apertura è una delle competenze emotive più preziose che possiamo sviluppare.
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