È reale quel che vediamo?
Capita, a volte, che taluni individui vivano esperienze particolari, durante le quali si sentono distaccati dal proprio corpo o dai propri processi mentali, sentendosi come in un sogno.
Si parla, in questo caso di, “depersonalizzazione”, riferendosi all’esperienza di irrealtà del Sé.
A questa sensazione, si unisce, spesso, la “derealizzazione”, in cui l’esperienza di irrealtà è riferita all’ambiente esterno: una sorta di alterazione della percezione del mondo esterno tale per cui esso appare strano o irreale e dove le persone tendono ad apparire non familiari.
Il termine depersonalizzazione fu coniato verso la fine del 1800 da H. Amiel, uno scrittore e filosofo svizzero, che soffriva di tale patologia, ma la causa esatta della sindrome è tuttora sconosciuta.
Da un punto di vista evoluzionistico, la il meccanismo è una risposta cerebrale a condizioni minacciose per la vita: un meccanismo adattivo innato del cervello che aumenta le possibilità di sopravvivenza in caso di pericolo improvviso.
In pratica, l’inibizione emotiva e l’allerta vigilante risponderebbero a situazioni minacciose dove l’individuo non ha pieno controllo sull’ambiente: l’inibizione di risposte emotive non funzionali e l’incremento dell’attenzione vigilante, permetterebbe un esame accurato, multisensoriale e simultaneo di informazioni rilevanti.
Tuttavia, quando la condizione si presenta in situazioni in cui non c’è un pericolo reale, il tutto provoca un’esperienza soggettiva davvero molto particolare: improvvisa assenza di sentimenti ed emozioni, in cui le cose appaiono prive di emotività ma dotate di definizione sensoriale, ridotta consapevolezza del corpo, attenuazione dell’esperienza del dolore e sensazione di pensieri vuoti.