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Iniziare l’anno nuovo in un modo che non chiede di cambiare, ma di ascoltarsi

All’inizio di ogni nuovo ciclo, che sia un anno, una fase di vita o una crisi personale, molte persone sentono l’urgenza di “aggiustarsi”. L’attenzione si sposta rapidamente su ciò che non ha funzionato, sulle mancanze, sugli errori ripetuti, sulle parti di sé percepite come fragili o difettose. È una postura mentale diffusa, quasi incoraggiata culturalmente: migliorarsi significa correggersi, eppure, nella pratica psicologica, questa narrativa mostra presto i suoi limiti. Lavorare solo sulla riparazione tende a rafforzare l’autocritica, non la fiducia; la sorveglianza costante di sé non genera vitalità, ma stanchezza emotiva.

Esiste un’altra prospettiva, meno rumorosa e più trasformativa, che parte da una domanda diversa: cosa accadrebbe se la fiducia, la stabilità e persino la gioia non derivassero dal correggere ciò che sembra sbagliato, ma dal riconoscere e integrare ciò che è già presente, vivo, funzionante? Questa domanda sposta l’asse del lavoro interiore dalla carenza alla completezza, da una visione punitiva a una più ampia e rispettosa della psiche.

Le risorse interiori dimenticate

Nel lavoro clinico emerge spesso un paradosso: persone competenti, sensibili, creative, capaci di relazioni profonde faticano a riconoscere le proprie qualità. Non perché non esistano, ma perché nel corso dello sviluppo non sono state viste, incoraggiate o ritenute sicure. Sensibilità scambiata per debolezza, intuizione etichettata come eccesso, entusiasmo ridimensionato per non disturbare, leadership scoraggiata per evitare conflitti. Queste parti non scompaiono; vengono accantonate. Qui entra in gioco un concetto centrale della psicologia analitica, spesso frainteso: l’ombra.

Nella visione di Carl Jung, l’ombra non coincide esclusivamente con ciò che è oscuro o disturbante. Comprende tutto ciò che resta fuori dalla coscienza, inclusi tratti positivi, talenti, impulsi vitali che non hanno trovato spazio di espressione. La psiche, per sua natura, tende alla totalità, ma l’ambiente relazionale e culturale filtra ciò che può emergere. Quando si parla di “ombra luminosa” o “ombra dorata”, ci si riferisce proprio a questo deposito silenzioso di qualità positive non integrate. Non è un’idea astratta, ma un’esperienza osservabile: più una persona si definisce attraverso i propri limiti, più spesso custodisce risorse non riconosciute.

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Dalla correzione all’integrazione

Molti percorsi di crescita personale si arenano perché cercano di eliminare l’insicurezza, la paura o il dubbio, come se fossero elementi estranei alla personalità. Un approccio più maturo non lavora contro queste esperienze, ma accanto ad esse. Integrare l’ombra luminosa non significa negare le difficoltà, bensì smettere di costruire l’identità esclusivamente attorno a esse.

Un esempio ricorrente nella pratica clinica è quello di persone che si descrivono come “non abbastanza”, pur avendo una storia di competenze e riconoscimenti. Quando viene chiesto loro di nominare qualità personali, la risposta è vaga, esitante, spesso accompagnata da imbarazzo. L’idea di riconoscere apertamente i propri punti di forza viene vissuta come pericolosa, esposta, quasi presuntuosa. In realtà, ciò che spaventa non è la qualità in sé, ma la possibilità di essere visti per ciò che si è davvero.

Il lavoro psicologico, in questi casi, non consiste nel convincere la persona del proprio valore, ma nel creare le condizioni di sicurezza necessarie affinché quelle qualità possano riaffiorare senza attivare vergogna o allarme. La trasformazione avviene quando il riconoscimento interno sostituisce la ricerca costante di validazione esterna.

Effetti sul funzionamento mentale ed emotivo

Dal punto di vista neuropsicologico, questa prospettiva trova solide conferme. Il cervello umano mostra una marcata sensibilità agli stimoli negativi: errori, minacce e carenze catturano più facilmente l’attenzione rispetto agli aspetti positivi. Questo orientamento, utile in termini evolutivi, diventa però disfunzionale quando si trasforma in autocritica cronica.

Allenare l’attenzione verso le proprie risorse non equivale a ignorare la realtà, al contrario, favorisce una regolazione emotiva più stabile, emozioni come curiosità, interesse, gratitudine e gioia ampliano il repertorio cognitivo, rendendo la mente più flessibile e meno intrappolata nella ruminazione, quando una persona inizia a riconoscere i propri punti di forza come dati di realtà, non come eccezioni o colpi di fortuna, la percezione di autoefficacia cresce e lo stress perde parte della sua presa.

È significativo notare che questo cambiamento non richiede eventi straordinari. Spesso la vita esterna resta simile, mentre muta il rapporto interno con sé. La gioia diventa più accessibile non perché tutto vada bene, ma perché smette di essere condizionata dall’autocritica.

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Trauma e disconnessione dalla propria luce

Il trauma, in forme diverse, attraversa molte biografie. Esperienze di rifiuto, svalutazione, imprevedibilità o pericolo possono portare la persona a restringere il proprio mondo interno per proteggersi. In questo processo, non viene oscurato solo il dolore, ma anche la vitalità. La disconnessione dalla gioia non indica una mancanza originaria, bensì una strategia di sopravvivenza.

Pensare alla luce interiore come a qualcosa di “spento” è fuorviante, è  più corretto immaginarla come coperta, nascosta, in attesa, il lavoro psicologico orientato all’integrazione non forza la positività né impone cambiamenti rapidi. Si muove con gradualità, costruendo sicurezza, favorendo l’autocompassione e aiutando la persona a lasciare andare schemi che non servono più.

Lasciare andare, in questo senso, non è un atto eroico, ma un processo di pulizia psichica, trattenere vecchie definizioni di sé, anche se dolorose, occupa spazio mentale ed energia emotiva. Riconoscere ciò che è già presente libera risorse.

La paura della propria espansione

Un aspetto spesso trascurato riguarda la resistenza alla propria crescita, per quanto possa sembrare controintuitivo, molte persone temono l’idea di vivere pienamente le proprie qualità. La sofferenza, per quanto faticosa, è prevedibile. Espandersi implica responsabilità, visibilità, possibilità di scelta. Restare in territori noti, anche se limitanti, può sembrare più sicuro, qui il cambiamento diventa una questione di libertà. Non perché sia semplice, ma perché è possibile. Scegliere di riconoscere la propria luce non significa negare il dolore, bensì smettere di identificarvisi completamente. È un atto di maturità psicologica che sposta il baricentro dell’identità: non più “ciò che manca”, ma “ciò che esiste e può essere abitato”.
Crescere, in questa prospettiva, non è diventare qualcun altro, è ricordare ciò che, per molto tempo, è rimasto in ombra e permettere a quelle parti di tornare a far parte della vita, con rispetto, gradualità e verità.

About Silvia Faenza

Ciao sono Silvia Faenza, mi sono Laureata in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all'Università del Salento, nel 2014. Dal 2015 mi occupo della gestione dei contenuti per aziende e agenzie editoriali online, principalmente in qualità di ghostwriter, copywriter e web editor.

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