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sindrome da hikkikomori

Sindrome da hikikomori: quali sono le caratteristiche e perché è sempre più diffusa?

Il termine “hikikomori” è giapponese, ma ormai si è diffuso in tutto il mondo per indicare un fenomeno che inizialmente si verificava principalmente in Giappone. Oggi si parla dunque di sindrome da hikikomori per indicare una persona che si isola dalla vita pubblica, che rifiuta il contatto con il mondo esterno.

Non si tratta di timidezza o di essere introversi, ma di una condizione psicologica che diventa invalidante. Nel corso degli ultimi anni, il fenomeno ha superato i confini culturali del paese del Sol Levante ed è diventata sempre più diffusa anche in Europa e in Italia, intaccando soprattutto le generazioni più giovani.

Chi sono gli hikikomori?

Non esiste un unico profilo psicologico specifico, tuttavia, la letteratura internazionale individua alcune costanti: adolescenti o giovani adulti, prevalentemente di sesso maschile, con buone capacità cognitive, spesso provenienti da contesti familiari medio-alti. Hanno alle spalle storie di disagio scolastico, bullismo, perfezionismo patologico, aspettative genitoriali rigide o ambienti familiari iperprotettivi.

Il ritiro può iniziare in modo graduale: prima si saltano i giorni di scuola, poi si evitano le uscite con gli amici. Infine, si smette di uscire di casa del tutto, talvolta anche di parlare con i genitori. Alcuni arrivano a non uscire mai dalla propria stanza, mantenendo contatti solo virtuali e solo se strettamente necessari.

Il comportamento può durare mesi o anni. Non è raro che l’isolamento si protragga oltre i cinque anni. In quanto i soggetti non manifestano un vero rifiuto della vita, ma un rigetto della partecipazione sociale, vissuta come fonte di angoscia, giudizio o pressione.

Sindrome da Hikikomori? Non da manuale diagnostico

Il termine hikikomori non corrisponde a una diagnosi clinica codificata nei principali sistemi classificatori internazionali, come il DSM-5 o l’ICD-11. Si tratta piuttosto di una definizione osservativa, utilizzata per descrivere un comportamento di isolamento prolungato che può affiancarsi, in modo variabile, a quadri psicopatologici già noti: depressione, ansia sociale, tratti evitanti di personalità, disturbi del neurosviluppo, condizioni ansiose pervasive.

Proprio per questo, il percorso clinico non può seguire uno schema rigido. Non esiste un trattamento replicabile in modo identico nei diversi casi. Il lavoro richiede valutazioni attente, caso per caso, e spesso implica il coinvolgimento coordinato di più figure: lo psicologo clinico, il neuropsichiatra, i familiari, talvolta anche educatori o tutor domiciliari. L’intervento deve tenere conto non solo del sintomo, ma del contesto che lo sostiene.

Perché oggi se ne parla sempre di più

Nel nostro contesto culturale, la comparsa di comportamenti hikikomori è facilitata da una combinazione di fattori sociali e relazionali. Le pressioni legate al rendimento scolastico, la ricerca precoce di prestazioni elevate, la continua esposizione al giudizio, la riduzione degli spazi di relazione autentica. A questi si aggiunge la possibilità – tecnicamente sempre più semplice – di isolarsi restando comunque “connessi”.

Molti giovani che scelgono il ritiro non manifestano segnali di disagio evidenti, non esprimono verbalmente sofferenza. Non protestano, non si oppongono. Smussano i contatti fino a spegnerli del tutto, mantenendo una forma di esistenza sospesa. Non cercano necessariamente una fuga, ma un’interruzione: dalla competizione, dalle aspettative, dall’esposizione continua al confronto.

L’esperienza dei lockdown ha accentuato questa tendenza. In molti casi, l’interruzione imposta della socialità ha fornito una sorta di giustificazione legittima al ritiro, ma una volta conclusa l’emergenza, per alcuni il reinserimento non è più stato possibile. Il ritorno alla normalità è risultato estraneo, persino minaccioso.

Non si tratta solo di fragilità individuale, in quanto questo tipo di ritiro parla spesso anche di un disagio collettivo, di un’idea di successo e adattamento che non lascia spazio alla fatica di crescere.

Famiglie impreparate, interventi tardivi

Una delle maggiori criticità è il ritardo nell’intervento, le famiglie spesso non sanno come interpretare i segnali iniziali. I primi mesi di ritiro vengono minimizzati, interpretati come una fase passeggera. Col passare del tempo, però, il comportamento si struttura, e più tempo passa, più l’isolamento si radica.

Alcuni genitori tendono ad assecondare i ritmi del figlio, nel tentativo di non peggiorare la situazione, ma il rischio è quello di cristallizzare l’assetto, rendendo ancora più difficile la riemersione. In altri casi, prevalgono reazioni opposte: imposizioni, rimproveri, tentativi bruschi di forzare l’uscita, con risultati spesso controproducenti.

Il lavoro dello psicologo è innanzitutto quello di creare un’alleanza, non con il solo soggetto, ma con l’intero nucleo familiare. L’intervento inizia spesso fuori dallo studio: una chiamata, un contatto mediato dai genitori, uno scambio digitale. Il lavoro terapeutico è lento, delicato, richiede pazienza, rispetto dei tempi e delle difese del soggetto.

Non tutti vogliono rientrare nella società

Va considerata anche una possibilità spesso ignorata: non tutti gli hikikomori desiderano reintegrarsi nella società così com’è. Alcuni esprimono consapevolmente la volontà di vivere ai margini, lontano da dinamiche che percepiscono come tossiche o oppressive. In questi casi, il lavoro psicologico non consiste nel “riportare alla normalità”, ma nel capire quali sono le motivazioni del ritiro, distinguendo ciò che è sintomo da ciò che è scelta.

La nostra società tende a patologizzare tutto ciò che devia dal tracciato previsto. Ma l’assenza di relazione non è di per sé malattia. Lo diventa quando causa sofferenza, quando blocca la crescita psichica, quando impedisce all’individuo di costruire un’identità. E questo può avvenire anche senza uscire di casa.

About Silvia Faenza

Ciao sono Silvia Faenza, mi sono Laureata in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all'Università del Salento, nel 2014. Dal 2015 mi occupo della gestione dei contenuti per aziende e agenzie editoriali online, principalmente in qualità di ghostwriter, copywriter e web editor.

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