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sindrome dell'abbandono nei bambini

Sindrome dell’abbandono nei bambini: un problema a volte invisibile che segna l’infanzia

La sindrome dell’abbandono nei bambini non può che evocare un’immagine dolorosa. Ma perché i bambini ne possono soffrire e cosa possiamo fare per evitare che ciò accada? La sindrome dell’abbandono nei bambini è una realtà concreta che si annida nel comportamento quotidiano, nelle emozioni, nei silenzi e nei pianti apparentemente immotivati.

È un disturbo relazionale che si sviluppa nel tempo e che, se trascurato, può lasciare una traccia persistente nelle relazioni future.

Ansia da separazione o paura dell’abbandono?

Spesso si pensa che l’ansia da separazione (che è normale nei bambini piccoli) sia assimilabile alla paura o alla sindrome dell’abbandono. In realtà non è così.

Infatti, l’ansia da separazione è un passaggio prevedibile, persino utile, nei primi anni di vita. Un bambino che piange quando la madre si allontana per andare al lavoro manifesta un attaccamento sano.

La protesta ha una sua logica evolutiva: garantisce al piccolo la protezione dell’adulto. Se però quel pianto si trasforma in panico ingestibile, se non si placa con l’abitudine, se si prolunga anche oltre l’età prescolare, allora la dinamica muta. Non si tratta più di un’emozione transitoria, ma di una ferita strutturata, con radici più profonde.

La sindrome dell’abbandono non riguarda la distanza fisica, bensì una frattura interna. Il bambino non teme che il genitore esca dalla stanza: teme che sparisca dal suo mondo.

Teme che l’amore possa svanire, che la sua esistenza non sia sufficiente a garantire una presenza stabile e affettuosa. Il distacco è avvertito come una minaccia alla sopravvivenza emotiva.

Come si manifesta

Dato che la sindrome dell’abbandono si può manifestare sia in tenerissima età sia quando il bambino va all’asilo, o ancora più avanti nel tempo è necessario comprendere che nella maggior parte dei casi questo disagio non viene mai espresso verbalmente.

Infatti, questa si può manifestare in vari modi. Ad esempio: c’è chi diventa iper-dipendente, incapace di restare da solo nemmeno per pochi minuti, e chi invece reagisce con apparente distacco, fingendo un’autonomia che in realtà è solo autodifesa.

Spesso, i sintomi somatici diventano la modalità espressiva preferenziale: mal di pancia, nausea, cefalea, insonnia. Si tratta di un disagio diffuso ma difficilmente riconoscibile, anche per chi vive con il bambino ogni giorno.

Non è raro che la sindrome emerga durante momenti di transizione: l’inizio della scuola, un trasloco, la nascita di un fratellino, una separazione genitoriale. Eventi che per gli adulti possono sembrare gestibili, per il bambino diventano esperienze destabilizzanti. Quando la base sicura vacilla, la percezione dell’abbandono può insediarsi con forza.

Le cause: oltre il gesto, il significato

Non è necessario che ci sia stato un abbandono reale, nel senso stretto del termine. Un ricovero ospedaliero del genitore, la sua assenza emotiva dovuta a depressione, stress cronico, lutti non elaborati, può bastare.

Oppure un’educazione improntata sull’ipercontrollo, dove l’amore viene percepito come condizionato alla performance. Il bambino impara presto che l’attenzione si guadagna solo “facendo il bravo”, non semplicemente “essendo”.

C’è poi la trasmissione transgenerazionale: adulti cresciuti con modelli affettivi instabili tendono a riproporre, inconsapevolmente, schemi simili. Non per cattiveria, ma perché non hanno avuto accesso a un modello alternativo. Così la paura dell’abbandono passa da una generazione all’altra, come un copione scritto in anticipo.

Conseguenze nel tempo

Un bambino che cresce con la convinzione che l’amore possa essere ritirato da un momento all’altro sarà un adulto diffidente, bisognoso di continue conferme, spesso intrappolato in relazioni sbilanciate.

La paura di essere lasciato lo porterà a trattenere l’altro a qualsiasi costo, anche a scapito della propria dignità. Oppure, al contrario, tenderà a evitare legami profondi per non rischiare di soffrire.

Molti comportamenti che etichettiamo come “insicurezza” o “gelosia patologica” affondano le radici proprio in esperienze precoci di abbandono emotivo. Non si tratta di difetti caratteriali, ma di esiti di una storia affettiva travagliata.

Cosa osservare, quando intervenire

Il pianto al momento del distacco è normale, così come la ricerca di rassicurazioni. A preoccupare dovrebbe essere la loro intensità e durata.

Se un bambino mostra disagio marcato, persistente, sproporzionato rispetto all’evento – e se questo influenza la qualità della sua vita scolastica, relazionale o familiare – è opportuno valutare un supporto professionale.

Attenzione anche ai comportamenti compensatori. Un attaccamento eccessivo al genitore può nascondere un disagio non espresso. Così come la paura irrazionale che “qualcosa possa accadere a mamma o al papà” spesso rivela il timore di una separazione definitiva, più simbolica che concreta.

L’importanza dello sguardo adulto

Un intervento efficace non si riduce alla gestione del sintomo, serve un lavoro più ampio, che coinvolga il contesto familiare e l’ambiente educativo. Non si cura il bambino da solo, perché la sua sofferenza è spesso la manifestazione visibile di un disequilibrio relazionale.

Fondamentale è il ruolo degli adulti significativi, che devono imparare a fornire quella “base sicura” capace di restituire fiducia. Questo significa coerenza, ascolto, rispetto dei tempi emotivi del bambino. Significa evitare promesse non mantenute, assenze prolungate senza spiegazioni, giudizi sminuenti.

Strumenti di sostegno

Esistono approcci terapeutici che si sono dimostrati efficaci. L’EMDR, ad esempio, lavora proprio sul ricordo traumatico legato al vissuto di separazione, aiutando il bambino (e spesso anche il genitore) a rielaborare l’esperienza, ma ogni percorso va personalizzato, partendo da un’accurata valutazione clinica.

A volte è sufficiente un accompagnamento genitoriale: un confronto con lo psicologo per comprendere meglio i bisogni del figlio e modificare alcune dinamiche quotidiane. In altri casi, soprattutto se i sintomi sono marcati e persistenti, può rendersi necessario un percorso più strutturato, individuale o familiare.

La sindrome dell’abbandono è una ferita, sì, ma non irreparabile. I bambini possiedono una straordinaria capacità di guarigione, purché abbiano accanto adulti capaci di restare, di ascoltare senza giudicare, di dare senso alla paura. La cura comincia proprio da lì: da uno sguardo che non fugge, da una voce che rassicura, da una presenza che non si ritrae, anche nei giorni difficili

About Silvia Faenza

Ciao sono Silvia Faenza, mi sono Laureata in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all'Università del Salento, nel 2014. Dal 2015 mi occupo della gestione dei contenuti per aziende e agenzie editoriali online, principalmente in qualità di ghostwriter, copywriter e web editor.

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