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Disturbi mentali o stili cognitivi evoluti?

Un recente articolo sulla rivista Evolutionary Human Sciences ha raccolto alcune prove dimostrando come alcuni disturbi mentali possano aiutare la sopravvivenza di gruppo nelle società tradizionali.

Le differenze in natura, nel mondo animale così come in quello umano, sono spesso motivo di prosperità.

E se pensiamo agli stili cognitivi? È possibile che la selezione naturale abbia progettato le persone a pensare in modo diverso a beneficio del gruppo?

Scopriamolo insieme seguendo i passi di questa interessante ricerca!

Una nuova visione della psichiatria

Dagli anni ’70, la psichiatria occidentale ha considerato i disturbi mentali solo come sottoprodotti di disfunzioni cerebrali, e cioè come malattie.

Eppure, nuove ricerche portano in un’altra direzione. Alcuni disturbi, come l’autismo o persino la schizofrenia, potrebbero essere le risposte ai problemi della vita di gruppo.

Gli autori dell’articolo (Adam Hunt e Adrian Jaeggi) non sono gli unici a suggerirlo. Un articolo di Helen Taylor, ricercatrice presso l’Università di Cambridge, aveva già sviluppato la teoria della cognizione complementare.

Per questa teoria, gli esseri umani si sono evoluti per specializzarsi in diversi stili cognitivi che promuovono il successo di gruppo. Non più deficit quindi, ma specializzazioni cognitive fondamentali per l’adattamento.

Il lavoro di Taylor mostra l’associazione della dislessia con l’apprendimento esplorativo, che include il pensiero divergente: la capacità di creare soluzioni multiple a un problema. Come sottolinea, è straordinario che circa un terzo degli imprenditori americani sia dislessico.

In che modo i disturbi mentali aiutano la sopravvivenza del gruppo?

Il disturbo da deficit dell’attenzione o iperattività (ADHD) sembra essere una vera e propria strategia cognitiva evolutiva. Il rapido spostamento dell’attenzione potrebbe infatti essere un vantaggio in un ambiente pericoloso o minaccioso.

Prendiamo anche il disturbo bipolare. Alcuni scienziati sostengono che gli episodi maniacali favoriscono la leadership, la creatività e l’energia. Infatti, non è difficile cogliere un collegamento tra mania e straordinaria ambizione.

L’autismo è stato invece associato ad abilità visuo-spaziali migliorate, ad a una maggiore attenzione e consapevolezza del mondo fisico, non sociale.

Qualcuno potrebbe pensare che queste considerazioni non valgano per la schizofrenia, considerata spesso solo una malattia.

Ma non è necessariamente vero. Hunt e Jaeggi suggeriscono che alcune forme di schizofrenia possano aumentare la creatività; anche sentire le voci potrebbe essere prezioso in alcune società tradizionali.

Se alcuni disturbi mentali sono stili cognitivi evoluti, e non malattie o patologie, allora il paradigma biomedico della psichiatria occidentale potrebbe essere un ostacolo per il lavoro scientifico all’avanguardia su questi temi.

Una narrativa diversa dal modello medico?

Il Movimento della Neurodiversità offre una visione simile da decenni. Nato con lo scopo originario di ripensare la natura dell’autismo, si propone di usare una terminologia più neutra, come “neurodiverso”, esplorando come la società sia ingiustamente progettata per privilegiare invece i “neurotipici”.

Ma ci sono due differenze con l’idea degli stili cognitivi evoluti:

  1. I sostenitori della neurodiversità non sono legati a nessuna teoria evolutiva. Per loro, l’evoluzione non dovrebbe avere una relazione con i diritti ed il sostegno alle persone con autismo.
  2. Il movimento per la neurodiversità è incentrato soprattutto sull’autismo, mentre sia Taylor, sia Hunt e Jaeggi, gettano una rete più ampia.

Qual è quindi la conclusione più importante da trarre? Come possiamo progettare la società e l’istruzione in modo che persone con forze cognitive diverse possano prosperare? Come possiamo cambiare mentalità per riconoscere che anche la diversità cognitiva è preziosa per la società?

In definitiva, è possibile vedere come anche chi soffre di una neurodiversità potrebbe in realtà essere in grado di adattarsi o rispondere in modo positivo a una determinata dell’evoluzione. Cambiare la nostra prospettiva verso la diversità cognitiva può aiutarci a limitare quel processo di esclusione e compatimento in cui queste persone si trovano a vivere, e agevolare invece una vera integrazione all’interno della società.

Anche per quanto riguarda il paragrafo a meno che non sia per seguire una specifica strategia meglio non chiudere mai con un punto di domanda.

Nell’uso contemporaneo, sia scritto che parlato, la d eufonica si inserisce in genere solo quando le due vocali sono identiche: si avrà allora vivo ad Amalfi e non a Amalfi, iene ed elefanti e non iene e elefanti, e così via.

About Silvia Faenza

Ciao sono Silvia Faenza, mi sono Laureata in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all'Università del Salento, nel 2014. Dal 2015 mi occupo della gestione dei contenuti per aziende e agenzie editoriali online, principalmente in qualità di ghostwriter, copywriter e web editor.

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