Quanto la propria personalità può influenzare la capacità di conservare una buona salute mentale durante la pandemia da Covid-19? La questione è aperta fin dall’inizio di questa difficile emergenza sanitaria ed una delle questioni più affascinanti riguarda l’eventuale miglior propensione delle persone introverse ad affrontare l’isolamento derivato dal distanziamento sociale, rispetto alle controparti estroverse. Individui che non fondano il loro benessere sull’interazione sociale sono concretamente avvantaggiate in questo periodo storico, rispetto a quelle per cui la socialità gioca un ruolo centrale? Essendo la situazione contingente fortunatamente una novità mai affrontata prima erano pochi gli studi a riguardo, ma una nuova ricerca evidenzia oggi la spiccata capacità di resilienza degli introversi.
Lo studio svizzero sulle personalità introverse
La dottoressa Danièle A. Gubler ed i suoi colleghi dell’Università di Berna hanno ipotizzato che l’introversione possa essere realmente un tratto positivo della personalità, quando si tratta di convivere con la solitudine, se supportato anche da un’altra peculiarità, ossia
la propensione gestire efficacemente le proprie emozioni.
Secondo i ricercatori, esistono due diverse strategie di regolazione delle emozioni che possono essere messe in atto di fronte a situazioni difficili: una strategia adattiva, che aiuta concretamente le persone a stare meglio, ed una strategia disadattiva, che contribuisce ad alimentare invece sentimenti spiacevoli.
Con un esperimento che ha coinvolto 466 partecipanti, il team di ricerca svizzero ha cercato di capire quale combinazione di personalità e strategie di regolazione delle emozioni fossero più adatte per affrontare la situazione di stress e isolamento da Covid-19.
Per inquadrare meglio i partecipanti al test, della durata di 6 settimane, ecco alcuni dati rilevanti sulla composizione del campione: l’80% di loro erano donne con un’età media di 32 anni e vivevano tutti in Svizzera nel periodo marzo – aprile 2020, quando erano in vigore stringenti misure restrittive della mobilità e chiusure delle attività commerciali. Al momento della sperimentazione circa la metà di loro lavorava in remoto, mentre il 18% aveva perso il lavoro o aveva dovuto abbandonarlo temporaneamente. Il 42% era coinvolto in una situazione sentimentale ed il 21% aveva figli.
Come si è svolto il test?
Per misurare la solitudine, il team di ricerca ha suddiviso questo stato soggettivo negativo in tre componenti: una componente intima, ossia la mancanza di compagnia, una componente relazionale, l’assenza cioè di persone con cui parlare ed infine una componente collettiva, caratterizzata dalla sensazione di scarsa comunanza con gli altri.
Per misurare poi il benessere dei soggetti coinvolti, gli autori dello studio hanno utilizzato una valutazione a 5 voci fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che chiedeva di indicare la frequenza con cui si erano provati negli ultimi 7 giorni sentimenti positivi come essere di buon umore, sentirsi rilassati o attivi.
Nei risultati di tale valutazione sono stati poi integrati punteggi derivanti dalla misurazione di ansia e depressione: un test online ha fornito una stima della tendenza all’estroversione o all’introversione, oltre che un’ipotesi dello stato di nevrosi dei soggetti, definibile come una tendenza all’ansia, alla depressione, all’insicurezza e ad altri simili sentimenti negativi.
I ricercatori hanno chiesto ai partecipanti di definire la loro abilità all’uso di strategie di regolazione delle emozioni tramite un semplice insieme di affermazioni di stampo adattivo o maladattivo tra cui scegliere. Infine, hanno domandato ai partecipanti di giudicare oggettivamente il loro uso della soppressione emotiva, ossia un’altra strategia disadattiva, che porta a fare affermazioni quali “Quando provo emozioni negative, mi assicuro di non esprimerle”.
Una personalità introversa può essere utile, oggi?
I dati del test hanno rivelato che i soggetti più capaci di preservare il loro stato di benessere mentale in situazioni di stress e solitudine erano quelli che possedevano il più alto livello di introversione ed un’ottima attitudine a usare strategie adattive di regolazione delle emozioni.
Gli estroversi invece se la sono cavata meno bene durante il periodo dello studio, soprattutto perché anziché usare strategie adattive per la gestione delle loro emozioni, tendevano a sopprimere la loro disperazione. Allo stesso modo, le persone con un elevato grado di nevrosi hanno sofferto eccessivi stati di preoccupazione ed ansia.
L’introversione può essere quindi considerata una risorsa utile per convivere con la solitudine, ma solo quando associata all’abilità di attingere alle proprie capacità interiori per vedere le emozioni negative sotto una luce più positiva.
La personalità da sola quindi non può prevedere chi si adatterà più favorevolmente alle circostanze che cambiano o alle avversità della vita: la chiave del benessere sembra risiedere nell’efficace abitudine di gestire le proprie emozioni al meglio nei momenti di forte stress.